Una fotografia, formato 20x30, senza più la cornice a giorno di vetro, rotta. La ritrovo in un angolo del garage, con i bordi rovinati e i colori che cominciano a sfuggire. È datata trada primavera 2001, io ancora senza barba, lui sorride con la mano sulla mia spalla. Si vede che è molto alto, sembriamo entrambi contenti.
Rewind.
È il 7 gennaio 2001. A San Siro si gioca il derby Milan-Inter. Sono anni difficili per la mia squadra, anche se il peggio dovrà ancora venire, il 5 maggio dell’anno dopo. Al decimo minuto però un lancio d’esterno di Seedorf innesca un tiro al volo di Hakan Sükur che, con una parabola perfetta, scavalcava il portiere del Milan. 0-1, stadio ammutolito, tranne la fetta nerazzurra e grandi abbracci per il centravanti turco. La mia corsa in corridoio a casa (era un’appartamento anni sessanta, con i corridoi lunghissimi), la pelle d’oca. Probabilmente il momento migliore di tutta la breve (e non certo memorabile) esperienza di Hakan Sükur all’Inter (insieme a quando segnò in Europa a pochi minuti dalla fine il gol della vittoria contro l’Herta Berlino).
Un po’ di altre cose.
Leggendario giocatore del Galatasaray di Istanbul, Sükur è tuttora il miglior cannoniere della nazionale turca, nonché il detentore del gol più veloce nella storia delle fasi finali dei Mondiali di calcio, realizzato dopo 11” nella storica finale per il terzo posto del 2002, che la Turchia vinse per 3-2, ottenendo il bronzo nel torneo, miglior risultato di sempre per la squadra. Quando successe, ero al supermercato Il Gigante di Canegrate, ricordo che mi telefonò per dirmelo il mio amico Andrea e che, segretamente, mentre vagavo nel reparto surgelati, festeggiammo un po’. Due anni prima, infatti, io e lui avevamo fondato il primo (e unico) fan club italiano di Hakan (immaginate le prese in giro, eccetera, ma a San Siro, nella partita dell’11 marzo 2001, lui ha segnato e mi ha indicato in tribuna. Sfido altri tifosi a vantare questo nel loro palmares: la dedica di un gol).
A questo punto si sarà (forse) capito che nella fotografia la seconda persona era lui, Hakan Sükur. Ci eravamo incontrati alla Pinetina (e mentre lo aspettavo, en passant, avevo scambiato due parole con Ronaldo, quello vero).
Intermezzo delilliano
In Underworld di Don DeLillo uno dei protagonisti, Nick Shay, acquista la palla del celebre fuoricampo del 1951 di Bobby Thomson, che consegnò in modo epico il campionato ai Giants, condannando i Dodgers alla più devastante delle sconfitte. Nick era un ragazzo all’epoca ed era un tifoso sfegatato dei Dodgers. Quella pallina era il simbolo della sconfitta, la compra per comprare il senso stesso della parola sconfitta. Essendo interista nato nei primi anni Settanta capisco bene cosa volessero dire DeLillo e Nick. In qualche modo la fotografia con Hakan, che quando ho ritrovato un mese fa mi ha perfino fatto piangere due lacrime di nascosto in garage, ha lo stesso significato, in un’epica decisamente minore, è ovvio, della palla da baseball del romanzo. Il senso stesso della parola sconfitta, anche se noi due, davanti all’obiettivo di papà, sorridiamo moltissimo.
Il resto della storia.
Ok, fino a qui la cosa è un po’ da tifoso strano e un po’ onanistica. Vero. Però c’è un altro pezzo della storia che dà alla fotografia un senso diverso, almeno per me. Nel 2016 Hakan Sükur, impegnatosi politicamente in Turchia, è stato accusato dal governo di Ankara di avere sostenuto il tentato golpe contro il presidente Erdogan. Fine dei giochi, addio all’eroe del pallone, il centravanti ostracizzato. Le cronache parlano dell’esilio con la famiglia (quella stessa famiglia a cui, si racconta, dopo avere firmato con l’Inter avrebbe telefonato per dire “non avremo più problemi”, a ripensarci ora mi viene una malinconia pazzesca) negli Stati Uniti. Barista in un anonimo caffè di Palo Alto, poi autista di Uber a Washington, entrambe le cose certificate pure da Wikipedia. Così va la vita, avrebbe magari scritto Vonnegut. Così io continuo a guardare quella fotografia e non so cosa pensare. Ad Hakan, comunque, ho voluto bene.
Epilogo strano.
Il mondo del calcio ad alti livelli è incomprensibile agli umani normali. Ci capita di fiancheggiarlo, certamente lo foraggiamo, ma ne siamo esclusi. A prescindere. Con i piedi nella sabbia e sentendo il mare che ondeggia qui davanti, ripenso come Mark Fisher al Capitale e ai modi in cui il Potere divora le nostre vite. Ho lasciato la fotografia in garage, non l’ho salvata. Sarà bello ritrovarla in futuro, per caso, oppure perderla per sempre. Andrebbe bene così comunque. Ah, la maglietta che indosso oggi è la stessa della fotografia e adesso che ci ho messo sopra una felpa, perché si è fatta sera e il cielo è terso e stellato, mi vengono in mente anche i racconti politici sul calcio di Simon Kuper, e penso a quel tedesco dell’Ovest che, facendo visita ai parenti rimasti a Berlino Est, si presentava con la divisa di Rummenigge sotto il completo grigio-mestizia d’ordinanza. Una sera ho mangiato vicino a Kalle, nel 1985, lo guardavo tantissimo, ma il coraggio di dirgli qualcosa non ce l’ho avuto. E’ sempre uno storia di piccole sconfitte, alla fine.
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