K-Pops #1 - Fedez e Francesca Michielin


Hanno qualcosa di strano, una specie di punto di rottura all’interno del mainstream. Forse anche questa specie di dissonanza è un’altra delle forme del mainstream, una più evoluta, neurale. Però su di me funziona. Li guardo, li ascolto. E penso che la polemica del giorno dopo sull’appello di una star dei social, direttamente coinvolta, abbia solo permesso a una canzone che aveva una sua forza di trovare la giusta collocazione in quel contesto. L’appello è servito a svelarla, ma forse, alla canzone, ha perfino fatto un danno. Chissà.

Non sono un Sanremologo, nemmeno da strapazzo. Mi ricordo l’edizione del 1982, questo sì. Memorabile, con Riccardo Fogli, ma, per il me decenne, soprattutto Christian (forse questa cosa dice veramente tutto di me), che cantava “Un’altra vita un altro amore ti darò”. Ho guardato pochi spezzoni dell’edizione 2021, ma poi nei giorni successivi con mio figlio abbiamo ascoltato delle canzoni. E nella mia playlist per andare a correre ci è finita “Chiamami per nome” di Francesca Michielin e Fedez, secondi in classifica. Con la benedizione social di Chiara Ferragli e buona pace delle noiosissime dichiarazioni indignate dei puristi (tipo gente che si prende tremendamente sul serio e gira sempre con la chitarra e pontifica su cose).
Mi piace il modo brusco con cui la canzone inizia, mi piace il tono di voce con cui Fedez entra nel brano, un tono di finta tranquillità e consapevolezza. Ecco, tutta la canzone si muove, come uno spettro di cose che non si possono dire, soprattutto dentro Sanremo, luogo psicologico definitivo dell’ipocrisia da prima serata, incubo di un mondo che esiste solo lì, della cui assurdità però si deve tacere. Michielin e Fedez sono più apocalittici dei Maneskin (che ti stupiscono la prima volta che li vedi e sembrano diversi, ma già alla seconda dici, diversi in cosa?) e sono ovviamente integrati, anzi per certi versi sono esattamente l’Integrazione. Eppure continuano a sembrare sperduti, fuori luogo, incapaci di stare dentro quella cosa nazionalpopolare, feriti. Ecco, sembrano feriti. Lei travolta da fantasmi interiori (quelle spille nel cuore?), che le danno proprio l’aspetto di un’apparizione hauntologica (e io che continuo a guardarla da una porta mai completamente aperta); lui come se stesse sempre per esplodere, divorato da una sensazione di disagio che forse è il più grande capolavoro realista (alla cui sincerità credo convintamente) del suo personaggio (“Guidando al buio piango come uno scemo”).
La ferita è una breccia, da cui entrano le cose: le infezioni, il capitale, la musica. La sensazione che questo brano, forse furbo in ogni sillaba e nota, ma comunque chiaramente esposto e vulnerabile, sia il meglio che la canzone italiana di un certo tipo e di un certo presente possa dare, mi continua a girare in testa. Prendiamo il ritornello, sospeso tra il film di Guadagnino e una celebre strofa di Ligabue: solo questo accostamento è una manifestazione di mistero assoluto, di genialità pop, mi viene da pensare. Il canto delle Sirene di DeGregori, è ovvio, sta da un’altra parte. Ma non è di questo che sto provando a ragionare, arrancando su quello specchio che sono gli schermi da cui il mondo digitale, lontanissimo, continua a spiarmi. Sanremo, in fondo, è una specie di Big Brother dell’etterno (licenza dantesca) millenovecentottantaquattro.

Commenti